venerdì 30 dicembre 2011

ENC e adempimenti contabili: rendiconto annuale sempre obbligatorio

Per gli enti non commerciali è prevista la redazione di due distinti rendiconti:
secondo quanto stabilito dall’art. 20, secondo comma, del DPR n. 600 :
· un rendiconto annuale economico e finanziario;
· uno specifico rendiconto in relazione alle raccolte pubbliche di fondi effettuate occasionalmente in concomitanza di ricorrenze, celebrazioni e campagne di sensibilizzazione.
Il rendiconto annuale economico e finanziario indicato sub a) è richiesto in ogni caso, vale a dire a prescindere dalle modalità gestionali ed organizzative dell’ente non commerciale ed indipendentemente dalla qualificazione giuridica dell’attività esercitata dall’ente stesso.
La corretta tenuta di tale documento contabile, infatti, costituisce lo strumento cui è tenuto l’organo di rappresentanza dell’ente non commerciale per soddisfare le esigenze informative, sia degli associati che dei terzi, in ordine alla corretta gestione economica e finanziaria del patrimonio. dell’ente.
Tale documento contabile, inoltre, consente agli organi di controllo di acquisire quelle informazioni contabili necessarie per stabilire, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo, le modalità operative e la struttura organizzativa dell’ente, anche al fine di determinare la sua corretta qualifica fiscale.
In relazione all’ulteriore obbligo di rendicontazione indicato sub b), richiesto dal secondo comma dell’art. 20 del DPR n. 600 del 1973 ai fini dell’agevolazione fiscale prevista per le raccolte pubbliche di fondi occasionali dall’art. 143, comma 3, lettera a), del TUIR, si ritiene che laddove un ente non commerciale non abbia esercitato alcuna delle predette raccolte, lo stesso non sia tenuto alla redazione dello specifico rendiconto.

giovedì 29 dicembre 2011

ACE: che cos’è e come funziona


Con l’art. 1 del decreto legge avente l’oggetto le disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici è stato introdotto, con effetto dal periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2011 e quindi – per la generalità dei soggetti, il cui periodo d’imposta coincide normalmente con l’anno solare – con decorrenza già dall’anno in corso, un trattamento fiscale agevolato (denominato ACE: aiuto alla crescita economica) alle imprese il cui capitale proprio viene incrementato mediante conferimenti in denaro e accantonamenti di utili a riserva.
Tale regime agevolato riecheggia la disciplina della cosiddetta “DIT” (dual income tax), che fu introdotta nell’ordinamento tributario italiano dal D.Lgs. 18 dicembre 1997 n. 466 e trovò applicazione fino al 2003, e trae origine dall’esigenza sia di rilanciare lo sviluppo economico del Paese e di fornire un aiuto alla crescita attraverso una minore imposizione dei redditi d’impresa, sia di evitare che la tassazione di questi redditi risulti nella sostanza inferiore se il finanziamento delle imprese ha luogo principalmente attraverso l’accensione di mutui onerosi piuttosto che mediante conferimenti di denaro da parte dei soci o dei titolari delle imprese stesse. Infatti, la disciplina fiscale del reddito d’impresa fino ad oggi applicabile escludeva benefici per le imprese finanziate mediante apporti di capitale proprio, poiché da essi non discendevano né deduzioni né tassazioni con aliquote ridotte, mentre gli interessi corrisposti in relazione ai mutui ricevuti erano (e peraltro continuano ad essere) deducibili ai fini della determinazione del reddito d’impresa, seppur entro i limiti – invero spesso assai angusti – stabiliti dall’art. 96 TUIR, originando quindi un risparmio d’imposta pari ad una quota degli interessi stessi corrispondente al tasso dell’imposta sul reddito dell’impresa (al 27,5%, pertanto, per le società di capitali), indipendentemente dal fatto che i soci o i titolari delle imprese mutuatarie impiegassero a titolo personale propri capitali in investimenti mobiliari, i cui proventi erano tassati con l’imposta sostitutiva del 12,50%. Ne derivava, in sintesi, per le imprese finanziate mediante mutui onerosi anziché con capitale proprio, un vantaggio corrispondente alla differenza tra il tasso d’imposta a esse applicabile e quello dell’imposta sostitutiva sui redditi di natura finanziaria applicabile in capo ai soci delle stesse.
Tale arbitraggio è destinato ora a venire meno, sia a seguito della elevazione dell’imposta sostitutiva relativa ai redditi da ultimo richiamati, che – in virtù di altre disposizioni recentemente introdotte – dal 1° gennaio 2012 è incrementata al 20%, sia grazie all’introduzione della norma in commento, la quale consente una deduzione, ai fini della determinazione del reddito d’impresa, connessa agli apporti di capitale proprio eseguiti dai soci o dai titolari delle imprese.
Detta deduzione è pari, così come recita l’art. 1 del decreto legge, all’importo corrispondente al rendimento nozionale del nuovo capitale proprio”, il quale è il risultato della moltiplicazione dei due fattori qui di seguito indicati:
1) di un apposita aliquota percentuale che verrà determinata con decreto del Ministro dell’Economia e delle finanze da emanarsi entro il 31 gennaio di ogni anno, tenendo conto dei rendimenti finanziari medi dei titoli obbligazionari pubblici, aumentabili di ulteriori tre punti percentuali a titolo di compensazione del maggior rischio dei finanziamenti, in quanto destinati ad un soggetto che svolge un’attività imprenditoriale;
2) dell’ammontare dell’incremento del capitale proprio dell’impresa originato, nel corso di un periodo d’imposta, dall’esecuzione di conferimenti in denaro e dall’accantonamento degli utili a riserva (con esclusione, peraltro, di quelli destinati a riserve non disponibili), al netto delle riduzioni del patrimonio netto discendenti da attribuzioni ai soci o ai titolari delle imprese, effettuate tanto a titolo di distribuzione di utili quanto di assegnazione di altre parti del patrimonio netto, degli acquisti di partecipazioni in società controllate e degli acquisti di aziende o di rami di aziende (la esclusione di acquisti di partecipazioni e di aziende trova giustificazione nell’esigenza di evitare effetti moltiplicativi del beneficio di cui trattasi, che potrebbero generarsi soprattutto all’interno di gruppi di imprese, ove il medesimo denaro ricevuto in conferimento da una società potrebbe essere da quest’ultima utilizzato per eseguire conferimenti in denaro in una società controllata e da questa, a sua volta, impiegato per eseguire un ulteriore conferimento in denaro in un’altra società controllata, e così via, dando luogo, grazie ad un unico reale conferimento, a una pluralità di conferimenti e quindi di deduzioni).
I conferimenti che rilevano sono rappresentati da tutti quegli apporti di mezzi propri che si risolvono in un aumento della liquidità, anche se diversi dall’aumento del capitale nominale, quali, ad esempio il versamento di un sovrapprezzo, un versamento in conto capitale, un versamento a fondo perduto, un versamento per copertura di perdite. Non rilevano quindi i conferimenti in natura. Rilevano invece, come detto, gli accantonamenti di utili a riserva, in quanto attraverso essi viene evitata la distribuzione degli utili prodotti e quindi una riduzione di liquidità, producendo un effetto analogo a quello derivante dai conferimenti in denaro; per tali ragioni tali accantonamenti dovrebbero rilevare indipendentemente dalla natura della riserva cui sono destinati e quindi anche se sono accantonati nella riserva legale o in una riserva vincolata, purchè non si tratti di riserve non disponibili, le quali non sono del resto formate con utili effettivamente realizzati.
I conferimenti in denaro rilevano a partire dalla data del loro versamento, mentre quelli derivanti dall’accantonamento degli utili a riserva assumono rilevanza a partire dall’inizio dell’esercizio in cui la riserva è formata; i decrementi rilevano invece a partire dall’inizio dell’esercizio in cui si verificano. Ciò significa che se un apporto è eseguito, ad esempio, il 1° dicembre di un determinato periodo, esso concorre alla formazione dell’incremento del capitale proprio di tale periodo, non per il suo integrale ammontare, ma solo per i 31/365 dello stesso, pur rilevando in misura integrale ai fini del calcolo dell’incremento del capitale proprio rilevante per i periodi d’imposta successivi.
E’ infatti da ritenersi che gli incrementi e i decrementi sopra indicati rilevino non solo per il periodo in cui hanno luogo, ma anche per quelli successivi, rispetto all’entità del patrimonio netto risultante dal bilancio relativo all’esercizio in corso nel primo anno di applicazione del regime agevolato, determinata senza tener conto dell’utile di tale esercizio. Per le imprese di nuova costituzione tutto il patrimonio conferito in denaro costituisce, per espressa disposizione di legge, incremento di capitale proprio e quindi origina per intero il beneficio di cui trattasi.
Le nuove disposizioni si applicano alle società di capitali e agli enti commerciali residenti in Italia, alle società di capitali e agli enti commerciali non residenti limitatamente alle stabili organizzazioni residenti nel territorio dello Stato e anche - sulla base di apposite modalità che saranno stabilite con un decreto del Ministro dell’economia e delle finanze di prossima emanazione - alle imprese individuali e alle società di persone in regime di contabilità ordinaria.

Misure antiriciclaggio: l’ennesima misura restrittiva


In materia, l’orientamento del legislatore non è stato costante nel tempo, circostanza che non ha certamente contribuito alla formazione di una prassi volta a privilegiare i pagamenti agevolati.
Gli interventi del legislatore sono, di norma, finalizzati all’adeguamento delle disposizioni adottate in ambito comunitario in tema di prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose (tra cui rientrano anche i reati tributari) e di finanziamento al terrorismo.
In tale contesto, va valutata anche l’ultima modifica apportata con l’art. 12, comma 1, del decreto Monti che ha introdotto un limite all’utilizzo del contante ritenuto più aderente alla prassi degli altri Paesi.
Sul piano formale, gli interventi in materia di tracciabilità dei flussi finanziari sembrerebbero finalizzati a reprimere il riciclaggio del denaro proveniente da illeciti penali. In merito, però, non è agevole distinguere nettamente detto profilo da quello fiscale tanto che lo stesso legislatore, ponendo fine alla diversità di orientamenti, con l’art. 36, comma 6, del D.Lgs. 21 novembre 2007, n. 231, ha disposto che i “dati e le informazioni” acquisiti in applicazione della normativa antiriciclaggio “sono utilizzabili ai fini fiscali” secondo le vigenti disposizioni. E’ di tutta evidenza, allora, che la progressiva riduzione della soglia minima per la legittimità dei pagamenti in contanti va inquadrata in un più ampio contesto finalizzato alla repressione anche dell’evasione e dell’elusione, esigenza che viene prospettata, con sempre maggiore insistenza, non solo dal mondo politico nazionale ma anche, e soprattutto, dalle iniziative delle Istituzioni comunitarie e degli altri Organismi internazionali.
D’altra parte, è noto che più della metà dei flussi finanziari si muova attraverso canali non ufficiali. Nonostante la notevole diffusione delle carte di credito, l’Italia è ancora lontana dal raggiungere un trend accettabile. Rispetto alla media europea, infatti, ogni abitante effettua con tali strumenti circa sessanta transazioni per anno mentre la media europea supera i 150, livello che si eleva ulteriormente a circa 170 nei Paesi dell’Eurosistema. La punta massima è raggiunta in Francia, Paesi Bassi e Regno Unito dove si arriva a circa 250 transazioni annue per ogni cittadino.
A fronte dell’elevato numero di carte di credito rilasciato dal sistema finanziario (circa 1,3 milioni) le stesse sono utilizzate, prevalentemente, per effettuare dei semplici prelievi e non per il pagamento degli acquisti di beni e servizi.
Di tale circostanza è consapevole anche il legislatore che, negli ultimi anni, ha inferto una particolare quanto importante accelerazione del processo di contrasto facilitato, probabilmente, anche dall’attuale gravissima crisi economico–finanziaria. Con l’entrata in vigore del D.L. n. 138/2011 erano stati introdotti nuovi limiti per il trasferimento del denaro contante, assegni e libretti di deposito.
Al riguardo, si ricorda che dal 31 maggio 2010, l’art. 20, comma 1, del D.L. 31 maggio 2010, n. 78, ha adeguato le limitazioni all’uso del contante e dei titoli al portatore all’importo di 5.000 Euro, ridotto a 2.500 euro dall’art. 2, comma 4, del D.L. n. 138/2011.
Per effetto del decreto Monti, la soglia dell’utilizzo del contante è stata ulteriormente ridotta fissandola, nel massimo, a 1.000 euro.
Il vincolo di monitorare ogni transazione finanziaria, commerciale o liberalità, di importo superiore a 1.000 Euro, facendola transitare per un intermediario finanziario del suo autore nonché la registrazione delle controparti, della natura, dell’importo e del mezzo di pagamento utilizzato, comporta, come logica ed inevitabile conseguenza, che i principi di identificazione e registrazione coinvolgono qualsiasi cittadino superando l’impostazione iniziale della disciplina in quanto limitata soltanto ad alcune categorie.
L’indicato importo di 1.000 euro, per espressa previsione normativa, deve essere considerato “complessivamente”, evitando, in tal modo, l’aggiramento delle operazioni frazionate realizzato attraverso il ricorso a due o più pagamenti per contanti per importi inferiori.
A tal fine, un’operazione economica unitaria sotto il profilo economico, di valore pari o superiore ai 1.000 euro, è considerata frazionata qualora vengano poste in essere “più operazioni, singolarmente inferiori ai predetti limiti, effettuate in momenti diversi ed in un circoscritto periodo di tempo fissato in sette giorni, ferma restando la sussistenza dell’operazione frazionata quando ricorrono gli elementi per ritenerla tale”.
Sul piano dei contenuti, è innegabile che la scelta legislativa costituisca un sicuro incentivo verso l’utilizzo di forme di pagamento differenti quali i bonifici bancari, l’utilizzo delle carte di credito, ecc. che, nella sostanza, producono i medesimi effetti. La riduzione della soglia massima consente all’Amministrazione finanziaria di disporre di ulteriori dati per la selezione dei contribuenti. Invero, tale banca dati è stata trasformata da strumento di selezione degli intermediari cui inoltrare le richieste di indagini finanziarie preventivamente autorizzate dal Direttore Regionale dell’Agenzia delle Entrate ovvero dal Comandante Regionale della Guardia di Finanza riguardanti contribuenti assoggettati ad attività ispettive, a data base per selezionare i soggetti da controllare. L’obbligo della tracciabilità prescinde dalla natura giuridica dei soggetti interessati dalla transazione e dalla causa sottostante avendo come unico punto di riferimento il citato limite quantitativo di euro 1.000.
Tuttavia, il divieto di trasferimento di denaro contante o di libretti di deposito bancari o postali al portatore o di titoli al portatore in euro o in valuta estera quando il valore dell’operazione è complessivamente pari o superiore a 1.000 euro non si applica ai trasferimenti in cui siano parte le banche o Poste italiane.
Per i menzionati depositi e titoli di importo superiore a 1.000 euro in essere alla data di entrata in vigore del decreto Monti, la loro estinzione ovvero il loro adeguamento deve avvenire entro il prossimo 31 dicembre.
Resta confermato che non è stato previsto alcun limite per i versamenti ed i prelevamenti presso le banche, le poste o gli istituti di moneta elettronica, fermo restando gli obblighi di identificazione ed, eventualmente, di segnalazione qualora l’operazione sia considerata particolarmente atta, per sua natura, ad avere una connessione con il riciclaggio o con il finanziamento al terrorismo.
Attraverso l’identificazione delle parti interessate dall’operazione e l’eventuale comunicazione all’Anagrafe dei rapporti resta “traccia” del movimento finanziario, utilizzabile ai fini fiscali qualora ne ricorrano i presupposti.
Analogamente, detto divieto non opera qualora i trasferimenti tra gli stessi soggetti siano effettuati in proprio o per il tramite di vettori specializzati, cioè di trasportatori di denaro contante, titoli o valori senza l’impiego di guardie particolari giurate sempre che trattasi di soggetti iscritti all’albo delle persone fisiche e giuridiche che esercitano l’autotrasporto per conto terzi (legge 6 giugno 1974, n. 298).
Sono esclusi, di conseguenza, i bonifici, i giroconti e tutti gli ordini di pagamento assimilabili quali, ad esempio, i RID ed i RIDA per i quali non è operante alcun limite. Né a tal fine rileva la diversa modalità di pagamento prevista per il RID (che può avvenire soltanto con addebito in conto corrente) e per le ricevute bancarie che possono essere pagate, invece, anche in contanti presso lo sportello bancario.
Un’ulteriore deroga è stata prevista per i trasferimenti di certificati rappresentativi di quote in cui siano parte uno o più dei seguenti soggetti: banche; Poste italiane S.p.A.; società di intermediazione mobiliare (SIM); società di gestione del risparmio (SGR); società di investimento a capitale variabile (SICAV); imprese di assicurazione che operano in Italianei rami di cui all’articolo 2, comma 1, del CAP.
La disciplina antiriciclaggio, anche relativamente ai trasferimenti in contanti, non deroga alle vigenti disposizioni relative ai pagamenti effettuati allo Stato o agli altri enti pubblici ed alle erogazioni da questi comunque disposte verso altri soggetti.
Resta confermato il carattere generale del limite di 1000 euro che, pertanto, si applica anche ai money-trasfer con conseguente inesistenza di specifici obblighi di documentazione.
Nessuna innovazione è stata apportata anche con riferimento all’emissione degli assegni bancari e postali da parte delle banche e da Poste italiane S.p.A. i quali devono essere sempre rilasciati muniti della clausola di “non trasferibilità” con l’evidente intento di ridurre la circolazione degli assegni liberi per limitarli, comunque, a pagamenti inferiori a 1.000 euro.
Resta fermo il diritto del cliente di richiedere, per iscritto, il rilascio di moduli di assegni bancari e postali in forma libera tenuto conto, però, che l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza possono chiedere ai soggetti emittenti (Banche e Poste) i dati identificativi ed il codice fiscale dei richiedenti ovvero dei soggetti che li hanno presentati all’incasso.
In ogni caso, gli assegni recanti la clausola di non trasferibilità non hanno limite di importo. Un’ulteriore novità riguarda l’introduzione di uno specifico obbligo a carico delle Pubbliche amministrazioni centrali e locali e dei loro enti di ridurre la gestione del denaro contante. A tal fine, è stato disposto che le operazioni di
pagamento delle spese delle Pubbliche amministrazioni debbano essere disposte mediante l’uso di “strumenti telematici”. In altri termini, tutti i pagamenti devono essere effettuati in via ordinaria mediante accreditamento sui conti bancari e postali dei creditori ovvero con le modalità offerte dai servizi elettronici di pagamento interbancari prescelti dal beneficiario.
Un limite di 500 euro, invece, è stato fissato per il pagamento degli stipendi, pensioni e compensi, comunque denominati, corrisposti dalla Pubblica amministrazione centrale e locale in via continuativa ai prestatori d’opera. Analogo vincolo è stato introdotto per ogni altro tipo di emolumento a chiunque corrisposto. In tutti questi casi, pertanto, i pagamenti devono essere effettuati con strumenti diversi dal denaro contante ovvero con strumenti di pagamento elettronici bancari o postali. Tra questi, per espressa previsione, rientrano anche le carte di pagamento prepagate.
In conclusione, tenuto conto che le sanzioni non hanno subito alcuna modifica migliorativa, è da ritenere che lo strumento della tracciabilità abbia raggiunto un livello sostanzialmente in linea con quello vigente nei Paesi di Common Low che, com’è noto, in materia di utilizzo della moneta elettronica sono davvero all’avanguardia.

Febbre Da Redditometro


È subito febbre da redditometro. L'agenzia delle Entrate ha "blindato" la sperimentazione, ha chiuso il programma di calcolo ai singoli utenti e a quanto risulta non sono state fornite nemmeno risposte ai dati già presentati. Ma non è stato sufficiente: il rincorrersi di continue voci sta mettendo a dura prova i nervi dei contribuenti che si sentono a rischio. L'ultima voce – attestata in un comunicato di smentita dell'agenzia delle Entrate – riguarda i coefficienti per le polizze assicurative. Sarebbero, infatti, in circolazione software che applicano un coefficiente elevatissimo (pari a dieci volte l'importo pagato) ai premi delle assicurazioni. E sembra che, sulla base di questo software, alcuni consulenti stiano consigliando ai loro clienti di non pagare i premi e rescindere le polizze.
Le voci, però, quando cominciano a diventare correnti incontrollabili, rischiano di creare problemi seri. Per questo l'agenzia delle Entrate ha dovuto precisare che questi software con i loro coefficienti non hanno fondamento. E Piero Brunello, amministratore delegato di Sose, assicura: «Il nuovo redditometro non funziona più per coefficienti, a differenza del vecchio».
Non si tratta, in ogni caso, della prima "indicazione" impazzita sul redditometro. Gira voce, per esempio, che alcuni contribuenti si stiano disfacendo alla spicciolata dei Suv più costosi. Un comportamento non molto assennato, se si considera che il redditometro "pescherà" anche nelle dichiarazioni pregresse, a partire dall'anno d'imposta 2009. E che, anzi, queste operazioni frettolose potrebbero far scattare i sospetti del fisco, che monitora non solo il possesso ma anche le cessioni.
Per non lasciare tracce sulle carte di credito si è segnalata, poi, una nuova propensione all'acquisto in contanti per alcuni acquisti di lusso, come per esempio gioielli. I limiti all'uso del contante aiuteranno senz'altro a limitare questi fenomeni anche se in molti casi non sarà difficile immaginare una solidarietà tra acquirenti e venditori, accomunati dall'intento di dichiarare al fisco solo quanto basta. Ma la sindrome da redditometro e l'allergia a pagare le tasse, potrebbero giocare brutti scherzi a coloro che in questo periodo cominciano ad "attrezzarsi" per evitare di incappare nelle maglie del fisco. Per ora la sperimentazione è ancora in atto e nessuno ha visto i risultati di come "gira" il nuovo redditometro. Dato, però, che le manovre affrettate non fanno bene a nessuno, anche chi volesse "ripararsi" forse farebbe bene ad aspettare che il fisco cali, davvero, le sue carte.

Contratto preliminare di compravendita nelle mani del curatore


Il contratto preliminare è il contratto con cui le parti si obbligano, l’una nei confronti dell’altra, a concludere entro il termine pattuito un futuro contratto (il contratto definitivo), del quale predeterminano il contenuto essenziale. Pertanto, nel caso di una compravendita, ad esempio, mentre il definitivo è un contratto ad effetti reali che trasferisce per effetto dell’accordo delle parti la proprietà su un bene, il preliminare (cosiddetto compromesso) è un contratto ad effetti meramente obbligatori, che ha il solo effetto di vincolare le parti a stipulare il corrispondente contratto definitivo.
Il Codice civile disciplina il contratto in oggetto sotto diversi profili, prevedendo in particolare che, in caso di inadempimento di una delle parti, l’altra parte possa rivolgersi al giudice e ottenere, se il preliminare non lo esclude, l’esecuzione forzata dell’obbligazione di contrattare. Il giudice emetterà una sentenza che produce gli effetti del contratto non concluso (art. 2932 c.c.).
Per quanto riguarda, poi, più specificatamente la disciplina fallimentare, l’art. 72, comma 1 e 3, del RD 267/42 prevede che, sopraggiunto il fallimento, l’esecuzione del contratto rimanga sospesa fino a quando il curatore sceglie se subentrare, con l’autorizzazione del comitato dei creditori, nel contratto preliminare in luogo del fallito, assumendo tutti i relativi obblighi compreso quello della stipulazione del definitivo, o se sciogliersi dal medesimo, evitando invece la stipulazione del definitivo.
Sul tema è intervenuta recentemente la Corte di Cassazione, con la sentenza 2 dicembre 2011 n. 25876. Nel caso di specie, veniva richiesta al curatore di un fallimento la stipulazione del contratto definitivo di compravendita di un appartamento, di proprietà del promittente venditore dichiarato fallito prima della stipula del definitivo, da parte dei promissari acquirenti (immessi nel possesso dell’immobile). Il curatore, pur avendo manifestato e comunicato ai promissari acquirenti, in un primo momento, la volontà di dare esecuzione al contratto, aveva successivamente rifiutato di addivenire alla conclusione del definitivo, optando per la risoluzione del contratto preliminare.
La domanda dei promissari acquirenti, rigettata in primo e secondo grado, è stata accolta invece dalla Cassazione nella sentenza in commento sulla base dei seguenti principi.
Con il fallimento del promittente venditore – ha precisato la Cassazione – il promissario acquirente può pretendere la stipulazione del contratto traslativo della proprietà solo se il curatore, con apposita dichiarazione e previa autorizzazione del comitato dei creditori (art. 35 del RD 267/42), abbia esercitato, nel senso dell’esecuzione del preliminare, la facoltà di scelta. Tale dichiarazione configura un atto di natura negoziale e recettizia.
Inoltre, l’esercizio da parte del curatore della facoltà di scelta tra lo scioglimento o il subingresso nel contratto preliminare di vendita pendente può anche essere tacito, ovvero espresso per fatti concludenti. Si tratta di una prerogativa discrezionale del curatore, che non necessita di atti formali e prescinde dall’autorizzazione del giudice delegato (cfr. Cass. 3 settembre 2010 n. 19035).
Premesso quanto sopra, la Cassazione ha chiarito che la manifestazione da parte del curatore della volontà di subentrare nel contratto fa venire meno la facoltà di scioglimento, con la conseguenza che il promissario acquirente potrà pretendere l’esecuzione del contratto da parte della curatela.
Da tali principi, invece, si è discostata la Corte d’Appello – ha concluso la Cassazione – ritenendo possibile lo scioglimento dal contratto nonostante la facoltà di scelta espressa per la stipulazione del definitivo. La Cassazione ha, quindi, cassato la sentenza impugnata, rinviando la causa per un nuovo esame alla Corte d’Appello (in diversa composizione) sotto il profilo, in particolare, della fondatezza della domanda ex art. 2932 c.c. (esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto), prescindendo però dallo scioglimento di cui all’art. 72 del RD 267/42, avvenuto dopo il subentro del curatore nel contratto.

mercoledì 28 dicembre 2011

Riforma Catasto


Una riforma del Catasto, che dovrebbe collegare i valori fiscali degli immobili a quelli di mercato, «a costo zero» per i contribuenti. Sono le precisazioni filtrate ieri dal Governo sulle prospettive del fisco del mattone, per contrastare l'idea che la revisione si trasformi in una «stangata» dopo il conto, salato, già presentato dalla manovra. Naturalmente, insieme alle basi di calcolo dovranno cambiare anche le modalità di tassazione: il «costo zero» potrebbe essere a livello complessivo, nel senso che non aumenterà la pressione fiscale sulla casa, ma il risultato non potrà essere identico a quello attuale per ogni proprietario, altrimenti la riforma perpetuerebbe le sperequazioni di oggi e perderebbe la propria ragione d'essere.
Il progetto, è quello di far sparire i «moltiplicatori», appena accresciuti dalla manovra, e fare in modo che la richiesta fiscale sia in linea con il valore reale del bene o la sua vera redditività, a seconda dell'imposta da applicare. La vita reale, secondo l'obiettivo, farà irruzione nel sistema della fiscalità immobiliare e tutti potranno avere parametri certi per valutare la convenienza di acquisti e affitti. Anche se per l'avvento del regno della trasparenza ci vorranno anni.
L'effetto più concreto della riforma, nelle tasche degli italiani, dovrebbe essere la scomparsa delle peggiori sperequazioni: oggi, per esempio, in media il valore di mercato è pari a 3,7 volte quello catastale, ma nei paesi più piccoli la forbice spesso scende intorno alle due volte, mentre in città come Napoli si arriva alla distanza record di dodici volte. Risultato: l'Ici oggi, e a maggior ragione l'Imu domani, più che della 'ricchezza' del proprietario sarà figlia della lotteria creata dalla giostra di tariffe d'estimo, categorie, classi e vani, ed a temere di più dovrà essere chi oggi è più lontano dai valori di mercato.
Anche perché il sistema, inventato nel 1939, era nato per rappresentare un'altra cosa: non il valore dell'immobile, ma la sua redditività. I calcoli, una volta fatti, invecchiano rapidamente. E anche la revisione del 1988/89 era entrata in vigore già superata. Né la rivalutazione del 5% del 1997 era servita a granché: se consideriamo i dati del mercato locativo, si vede che dal 1989 a oggi i canoni, in termini reali, sono saliti del 73 per cento. E dato che le locazioni, ufficialmente, a quell'epoca applicavano ancora l'equo canone, ecco che il dato di partenza è assolutamente falsato.
Il danno maggiore è stato fatto con i moltiplicatori: per determinare il valore di un immobile, che con la rendita non c'entra nulla, si è stabilito che questo fosse la rendita motiplicata per 100 (per le abitazioni). E il valore Ici è risultato così sempre più lontano dal reale.
Proprio per questo nel progetto si parla di individuare due valori: quello reddituale (cioè il canone medio al netto delle spese) e quello patrimoniale (il prezzo di mercato). Aggiornabili con un algoritmo che consente ogni due anni di avere dati aggiornati. E passando dai vani al metro quadrato: è già possibile nel 95% dei casi, ma ci sono ancora milioni di mappe mancanti.
Ma quali sarebbero gli elementi da inserire in questo algoritmo? Certamente ubicazione e valori locativi e di mercato ma molti altri potrebbero essere considerati anche se, dicono al Territorio, la definizione dei parametri passerà da un tavolo dove proprietari, professionisti e Comuni diranno la loro. E solo dopo si potrà partire con le idee chiare

martedì 27 dicembre 2011

Il nuovo volto della dilazione degli avvisi bonari


Il DL 201/2011 contribuirà, quantomeno sotto il profilo delle garanzie, ad uniformare gli istituti deflativi del contenzioso presenti nell’ordinamento.
In un precedente intervento era stato specificato che il DL 98/2011, che aveva espunto l’obbligo di prestazione della garanzia, a prescindere dall’importo, per le rate da accertamento con adesione, acquiescenza e conciliazione giudiziale, si era palesemente dimenticato della dilazione degli avvisi bonari, disciplinata dall’art. 3-bis del DLgs. 462/97. Pertanto, sebbene per le dilazioni ove le rate successive alla prima fossero state nel complesso superiori a 50.000 euro, la garanzia rimaneva necessaria.
Ora, accogliendo quanto esposto, il Legislatore corre ai ripari e modifica la norma indicata, intervenendo, tra l’altro, sull’espunzione dell’obbligo di prestazione della garanzia.
Quindi, la garanzia non sarà più necessaria per nessuno dei piani di rateazione scaturenti dai vari istituti deflativi del contenzioso presenti nel sistema.
Il DL 201/2011 contiene una norma molto importante, in quanto si prevede che le neointrodotte disposizioni “si applicano altresì alle rateazioni in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto”.
Pare allora potersi sostenere che, qualora un contribuente si sia visto disconoscere il piano di dilazione per mancata, tardiva o inesatta prestazione della garanzia, e abbia proposto ricorso contro la cartella di pagamento, possa vincere la causa sulla base della sopravvenienza della nuova legge.
Del pari, è salvo il contribuente che, non ancora raggiunto dall’iscrizione a ruolo, abbia omesso la prestazione della garanzia: in tal caso, le somme, se già iscritte a ruolo, dovrebbero essere sgravate.
Alle stesse conclusioni si dovrebbe giungere per le dilazioni ritenute decadute dal Fisco per tardivi versamenti di rate successive alla prima: ora, come si vedrà, si mantiene il beneficio del termine se si paga la rata entro il termine per quella successiva, e ciò impedisce la decadenza per le dilazioni in essere, a patto che la rata sia stata pagata, sebbene tardivamente, entro il suddetto termine
Tanto premesso, la dilazione degli avvisi bonari viene uniformata, anche se non del tutto, alle altre procedure per quel che riguarda il mancato versamento di rate successive alla prima.
Il mancato pagamento della prima rata entro il termine previsto o di una rata diversa dalla prima entro il termine di pagamento di quella successiva comporta la decadenza dal beneficio della dilazione, e le somme (ivi incluse le sanzioni nella misura piena) verranno iscritte a ruolo.
Se, invece, la rata viene pagata entro il termine per la rata successiva, non vi è la decadenza dal beneficio del termine, ma la sola sanzione da omesso versamento, peraltro definibile mediante ravvedimento operoso.
Detta sanzione, del 30% come prevede l’art. 13 del DLgs. 471/97, viene commisurata all’importo della rata versata in ritardo
E se il contribuente non paga la rata entro il termine per quella successiva? La sanzione del 30% rimane dovuta?
Dalla formulazione della norma si potrebbe anche sostenere di no, ma il punto potrà essere oggetto di chiarimenti ufficiali o di ulteriori approfondimenti dottrinari.

Elenco clienti-fornitori


Con la circolare n. 35 pubblicata da Assonime interviene a commento dell’obbligo di comunicazione delle operazioni rilevanti ai fini IVA, di importo almeno pari a 3.000 euro (25.000 euro per l’anno 2010) di cui all’art. 21 del DL n. 78/2010.
Quale premessa, correttamente, Assonime precisa che l’obbligo in questione, richiedendo la comunicazione solamente delle operazioni di importo superiore ad una certa soglia, a differenza di quanto accadeva per i “vecchi” elenchi clienti e fornitori, costituisce un sensibile onere amministrativo, costringendo a distinguere le operazioni da dichiarare rispetto a quelle escluse.
Relativamente all’oggetto della comunicazione, Assonime, nel ricordare che i limiti, a partire dal 2011, sono di 3.000 euro, al netto dell’IVA, laddove vi sia obbligo di fatturazione, e di 3.600 euro, IVA compresa, in assenza di obbligo di fatturazione, precisa correttamente che l’innalzamento dell’aliquota ordinaria di un punto, a decorrere dal 17 settembre 2011, non influenza la soglia di 3.600 euro che rimane invariata.
Ulteriori aspetti meritevoli di essere evidenziati, ricorda Assonime, sono i seguenti:
- le cessioni di beni, non imponibili ai sensi dell’art. 8, lett. c) del DPR n. 633/72, in quanto effettuate nei confronti di un esportatore abituale, non fruiscono dell’esonero disposto per le esportazioni di cui alle lett. a) b) del medesimo art. 8. Tuttavia, si legge nella circolare in commento, “anche tali operazioni avrebbero potuto essere esonerate dalla comunicazione, considerato che i dati relativi alle stesse possono ricavarsi dalle comunicazioni inviate telematicamente all’Agenzia delle Entrate dai fornitori degli esportatori abituali” (art. 1, commi 381–385 della L. n. 311/2004);
- le cessioni di beni non imponibili (art. 58 del DL n. 331/93), effettuate da un soggetto nazionale, nei confornti di altro soggetto IVA residente in Italia, con invio dei beni in altro Stato UE (triangolazione comunitaria) devono essere incluse nella comunicazione, in quanto non inserite negli elenchi INTRASTAT. In tale modello, infatti, deve essere inclusa solamente l’operazione effettuata dal cessionario nazionale nei confronti dell’acquirente comunitario (non imponibile ai sensi dell’art. 41 del DL n. 331/93);
- relativamente alle operazioni per le quali non sussiste l’obbligo di emissione della fattura, da comunicare a decorrere dall’anno 2011 se di importo almeno pari a 3.600 euro, IVA compresa, Assonime ritiene che tale soglia si applichi alle operazioni previste nell’art. 22 del DPR n. 633/72 per le quali il soggetto passivo non emetta in ogni caso la fattura. Al contrario, “qualora, infatti, tale documento venga emesso, sia facoltativamente che per obbligo di legge (in tutti i casi in cui è espressamente richiesta dal cliente non oltre il momento di effettuazione dell’operazione), potrebbe ritenersi che l’emissione della fattura renda sempre applicabile la soglia ordinaria dei 3.000 euro anche per tali operazioni”;
- in presenza di operazioni superiori alla soglia minima, regolate con corrispettivi frazionati (ad esempio, acconto e saldo), Assonime ricorda che l’Agenzia ha precisato che nella comunicazione si deve indicare anche la frazione di corrispettivo riferita a tali operazioni, anche se sotto soglia;
- la sanzione applicabile per omessa, incompleta o inesatta comunicazione delle operazioni in questione è variabile da 258 a 2.065 euro, ai sensi dell’art. 11 del DLgs. n. 471/97. Tuttavia, l’Agenzia ha espressamente riconosciuto, nella circ. n. 24/2011, che, alle violazioni relative all’obbligo di comunicazione in questione, dovrebbe ritenersi applicabile l’istituto del ravvedimento operoso, di cui all’art. 13 del DLgs. n. 472/97, con conseguente riduzione della suddetta sanzione ad 1/8 del minimo. Tale conclusione, tra l’altro, è in linea con quanto già ammesso in passato a proposito ad analoghe comunicazioni, quali gli elenchi clienti e fornitori, la comunicazione delle dichiarazioni d’intento da parte dei fornitori degli esportatori abituali e gli elenchi INTRASTAT.

venerdì 23 dicembre 2011

Al via il nuovo regime dei minimi


Finalmente disponibili i provvedimenti attuativi del nuovo regime dei minimi e degli “ex minimi”. Con i Provvedimenti dell’Agenzia delle Entrate pubblicati ieri, 22 dicembre, sono state diffuse le attese disposizioni attuative dei regimi predetti, come modificati dall’art. 27 del DL 98/2011, applicabili dal prossimo 1° gennaio.
Per quel che riguarda il regime fiscale di vantaggio per l’imprenditoria giovanile e i lavoratori in mobilità (nuovi minimi), viene precisato che tale regime è regolato dalle disposizioni recate dai commi 1 e 2 dell’art. 27 del DL 98/2011 e, per quanto non espressamente previsto dal Provvedimento stesso, ove compatibile, dalle norme che disciplinano i “vecchi minimi” (commi da 96 a 117 della L. 244/2007 e Provv. 2 gennaio 2008).
Vengono confermati i limiti all’accesso al regime per coloro che:
- hanno iniziato l’attività dopo il 31 dicembre 2007 o la inizieranno dal 1° gennaio 2012 (avendo riguardo, per quest’ultimo caso, allo svolgimento effettivo dell’attività e non alla mera apertura della partita IVA);
- possiedono i requisiti “tradizionali” dei minimi e quelli nuovi previsti dal comma 2 dell’art. 27 (novità dell’attività; non mera prosecuzione di attività precedente svolta, ad esclusione del caso in cui il contribuente dia prova di aver perso il lavoro o di essere in mobilità per cause indipendenti dalla propria volontà).
I soggetti in possesso dei predetti requisiti che hanno intrapreso un’attività d’impresa, arte o professione successivamente al 31 dicembre 2007 e che hanno optato per il regime ordinario oppure per il “forfettino” possono accedere al regime fiscale di vantaggio per i periodi d’imposta residui al completamento del quinquennio, ovvero non oltre il periodo d’imposta di compimento del trentacinquesimo anno di età.
La fuoriuscita dal regime di vantaggio, per scelta o per il verificarsi di un motivo di esclusione, comporta l’impossibilità di avvalersi successivamente del medesimo anche nell’ipotesi in cui, nel corso del quinquennio o non oltre il periodo d’imposta di compimento del trentacinquesimo anno di età, si torni in possesso dei requisiti necessari per avvalersene.
Il Provvedimento dà risposta anche ai dubbi di coloro che si erano preoccupati della ritenuta d’acconto, precisando che “i ricavi e i compensi relativi al reddito oggetto del regime non sono assoggettati a ritenuta d’acconto da parte del sostituto di imposta. A tal fine i contribuenti rilasciano un’apposita dichiarazione, dalla quale risulti che il reddito cui le somme afferiscono è soggetto ad imposta sostitutiva”.
Il secondo provvedimento, recante la medesima data, invece, regola il regime soprannominato degli “ex minimi”, vale a dire il complesso delle agevolazioni previste dal comma 3 dell’art. 27 del DL 98/2011 per i soggetti che:
- non possono beneficiare del regime fiscale di vantaggio per l’imprenditoria giovanile e i lavoratori in mobilità perché non possiedono gli ulteriori requisiti previsti dai commi 1 e 2 del citato art. 27;
- fuoriescono dal suddetto regime di vantaggio per decorrenza dei termini di applicazione (periodo d’inizio attività e i quattro successivi, compimento del 35° anno di età).
Viene precisato che, oltre a tali soggetti, possono fruire delle agevolazioni anche:
- coloro che, pur avendo le caratteristiche “tradizionali” per i minimi (commi 96 e 99 dell’art. 1 della L. 244), hanno optato per il regime ordinario ovvero per il “forfettino”;
- coloro che, pur avendo le caratteristiche per i “nuovi minimi” (commi 1 e 2 dell’art. 27 del DL 98), hanno optato per il regime ordinario ovvero per il “forfettino”.
Non possono usufruire delle agevolazioni i soggetti che si avvalgono di regimi speciali ai fini IVA, con esclusione dei produttori agricoli che esercitano l’attività nei limiti dell’art. 32 del TUIR.
I contribuenti che si avvalgono di tale regime sono esonerati dai seguenti obblighi:
- registrazione e tenuta delle scritture contabili rilevanti ai fini delle imposte sui redditi, IRAP e IVA;
- tenuta del registro dei beni ammortizzabili qualora, a seguito di richiesta dell’Amministrazione finanziaria, forniscano, ordinati in forma sistematica, i dati necessari;
- liquidazioni, versamenti periodici e versamento dell’acconto annuale ai fini IVA;
- presentazione della dichiarazione IRAP e versamento della relativa imposta.
Viene, inoltre, confermato l’assoggettamento agli studi di settore e ai parametri contabili e la determinazione del reddito secondo la disciplina ordinaria prevista dal TUIR (artt. 54 e 66).

giovedì 22 dicembre 2011

Lo spesometro guadagna un mese di tempo

Un mese di tempo in più per lo spesometro: slitta infatti al 31 gennaio 2012 il termine per la presentazione della comunicazione telematica delle operazioni rilevanti ai fini Iva di importo non inferiore a 25mila euro.
La nuova scadenza è fissata dal provvedimento direttoriale, pubblicato sul sito dell'agenzia delle Entrate, che proroga il vecchio termine del 31 dicembre 2011 (che, cadendo di sabato, slitta a lunedì 2 gennaio 2012) entro cui era fissata la segnalazione al Fisco delle operazioni riferite al periodo d'imposta 2010, come previsto dal decreto legge 78/2010.
L'Agenzia spiega che il nuovo termine per la comunicazione, che non incide sulla tempistica dell'utilizzazione delle informazioni per le attività di controllo, si è reso indispensabile al fine di consentire i necessari adeguamenti di tipo tecnologico e di superare le difficoltà operative segnalate dai soggetti titolari di partita Iva.
Difficoltà ribadite nei giorni scorsi dalle categorie che, al di là delle opinioni sulla validità o meno dello strumento, puntano l'indice contro la farraginosità dello strumento e, soprattutto, contro la mancanza del software per raccogliere i dati in maniera rapida e precisa.

mercoledì 21 dicembre 2011

Dietrofront della Cassazione sul valore del «redditometro»


Pareva troppo bello poter affermare che, dopo la sentenza n. 13289 della Cassazione, la difesa contro gli accertamenti da redditometro potesse essere strutturata come se le risultanze dei coefficienti fossero una presunzione semplice.
Infatti, con la sentenza n. 27545 depositata ieri, ecco il dietrofront della Corte di Cassazione: le risultanze derivanti dai coefficienti ministeriali relativi al cosiddetto “redditometro” costituiscono presunzioni legali per cui, da un lato, il contribuente non può impugnare il coefficiente di redditività oggettivamente considerato, dall’altro il giudice non può togliere, di sua volontà, la capacità contributiva presunta dai decreti ma solo valutare la prova contraria indicata dal contribuente (possesso di redditi esenti, soggetti a imposizione alla fonte o, per usare un termine più attuale, “legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile”, visto che così è strutturato il “nuovo” art. 38 del DPR 600/73).
La precedente sentenza, invece, andava in tutt’altra direzione, visto che l’accertamento sintetico era stato trattato alla stregua di un accertamento da studi di settore. In forza di ciò, la capacità contributiva presunta che deriva dai coefficienti non può che formarsi nel contraddittorio tra le parti e il contribuente ben può dimostrare che, in realtà, le spese presunte dai decreti, nella specie, non corrispondono a realtà.
Se così fosse, il cosiddetto “redditometro”, dal punto di vista delle possibilità di difesa, diventerebbe un’arma molto meno potente nelle mani del Fisco, posto che, almeno in base ai “vecchi” coefficienti, non appare molte volte difficile sostenere che l’imputazione reddituale presunta sia irrazionale.
Si pensi che il possesso di una vecchia auto imputa una capacità di spesa superiore a 20.000 euro annui, il che non è di certo ovvio; inoltre il contribuente ben potrebbe possedere un’auto di super lusso e dimostrare, chilometri alla mano, di non aver mai fatto benzina e addirittura di non aver pagato né bollo né assicurazione, il che toglierebbe valore, nel caso di specie, alla capacità di spesa presunta.
Come visto, purtroppo la Suprema Corte è tornata sulle sue posizioni, riaffermando la natura di presunzione legale dei coefficienti.
Si evidenzia che, comunque, la giurisprudenza di merito ha già affermato in talune occasioni che l’accertamento sintetico, appartenendo alla categoria degli accertamenti standardizzati, dal punto di vista difensivo deve essere vagliato alla stregua di un accertamento da studi di settore, con tutte le conseguenze che ne derivano.
Urge quindi un intervento delle Sezioni Unite, strumentale ad assimilare, una volta per tutte, l’accertamento di tipo sintetico ad una rettifica da studi di settore.


Sugli studi di settore spiegazioni entro febbraio


Un secondo appello per comunicare all'amministrazione finanziaria le situazioni che giustificano gli scostamenti dagli studi di settore. L'agenzia delle Entrate ha infatti comunicato ieri che sul proprio sito è disponibile il software «Segnalazioni studi di settore Unico 2011», che potrà essere utilizzato fino al prossimo 29 febbraio per segnalare all'amministrazione finanziaria le situazioni che possono aver giustificato cause di non congruità agli studi di settore. Si tratta del secondo anno in cui le Entrate offrono una seconda «ciambella di salvataggio» ai contribuenti che non sono allineati ai risultati di Gerico.
Si tratta della seconda possibilità perché già al momento di compilare la dichiarazione i contribuenti hanno a disposizione il campo «altre annotazioni», per segnalare questo tipo di anomalie. Negli anni scorsi la possibilità di segnalare nelle annotazioni le situazioni anomale è stata ampiamente utilizzata dai contribuenti, che ormai se ne avvalgono nell'ordine di circa 300mila soggetti l'anno.
I contribuenti, attraverso questo campo, spiegano per quali motivi si trovano in una situazione di non congruità. In generale, per quanto reso noto negli anni scorsi dall'amministrazione, attraverso questi strumenti i contribuenti segnalano situazioni quali la marginalità economica o particolari motivi di crisi non colti dai correttivi che negli ultimi anni sono stati varati per evitare che gli studi non riflettessero l'andamento economico dei soggetti ai quali si applicano. Un'altra situazione segnalata è quella dei contribuenti che spiegano motivi di non applicabilità degli studi alla loro situazione particolare.
Molto spesso vengono segnalate all'amministrazione finanziaria anche situazioni soggettive dei contribuenti che ne hanno influenzato l'andamento economico. Un pizzico di umanità che entra in Unico soprattutto attraverso le donne. È il caso della maternità che influenza nettamente l'andamento del periodo economico delle lavoratrici. È il caso spesso di professioniste, ma anche di altre lavoratrici: un caso frequente quello delle parrucchiere. In altri casi entrano in gioco le malattie professionali.
Le 'giustificazioni' addotte in questo modo dai contribuenti, vengono inserite nel sistema delle banche dati dell'Agenzia. Gli uffici possono così effettuare una prima valutazione della credibilità delle ragioni addotte dai contribuenti ed eventualmente già scartare da eventuali controlli tutti quei soggetti che hanno già prodotto all'amministrazione finanziaria una motivazione sufficiente. Ovviamente quanto più è credibile la ragione addotta, tanto più l'ufficio sarà portato a evitare il successivo controllo.
Con il provvedimento di ieri si apre dunque una nuova 'finestra' per dare spiegazioni, il cui scopo ultimo è quello di evitare l'attivazione di ulteriori controlli.
Il fatto che l'amministrazione finanziaria offra una seconda chance, rispetto a quella del campo annotazioni, aperta peraltro per un periodo lungo di tempo, fino a fine febbraio, testimonia la volontà di acquisire quante più informazioni possibili direttamente da parte dei contribuenti, incentrando l'attività di compliance più sul dialogo preventivo con i cittadini che aumentando a dismisura i controlli successivi. Una strategia che nel corso degli anni si è andata arricchendo di ulteriori strumenti. Rientrano tra questi ultimi per esempio le segnalazioni di 'anomalie' nell'applicazione degli studi fatte questa volta dalle Entrate ai contribuenti, per segnalare situazioni a rischio di controlli, con le lettere, in genere inviate nella tarda primavera o in estate, che ormai sono diventate una consuetudine per l'amministrazione.

martedì 20 dicembre 2011

Via al controllo dei conti correnti ecco il maxi-computer del Fisco


L'ITALIA mette in campo l'arma letale nella lotta all'evasione. Il primo gennaio 2012 è il D-Day della guerra contro i furbetti del fisco. Il giorno  -  così si augura il governo Monti  -  della svolta. Il segreto bancario non esisterà più. Archiviati i botti di San Silvestro (o quando saranno raggiunti gli accordi con le banche e gli intermediari finanziari) i nostri conti correnti, i titoli che abbiamo in banca e tutte le nostre operazioni sopra i mille euro saranno un libro aperto per l'Erario.
E a rastrellare questi dati per mettere nel mirino chi muove milioni senza dichiarare un centesimo sarà Serpico. Non Frank, l'inflessibile super-poliziotto newyorchese reso immortale da Al Pacino, ma il maxi-cervellone da un milione di miliardi di byte di memoria che ronza 24 ore su 24 nei sotterranei romani della Sogei.
È lui  -  il Grande fratello dell'Agenzia delle entrate  -  il jolly del Belpaese per far fare il salto di qualità alla lotta ai furbetti del fisco. Duemila server stipati in meno di duemila metri quadri che conoscono al centesimo tutti i nostri segreti finanziari. Un super-eroe con il cervello di silicio cui è affidata un missione fondamentale per salvare le casse tricolori: quella d'acchiappa-evasori.
Obiettivo: utilizzare le 22.200 informazioni al secondo che transitano dai suoi processori per stanare gli italiani che ogni anno sottraggono all'erario qualcosa come 120 miliardi (3mila euro a contribuente), una cifra che da sola basterebbe a pagare gli interessi su tutto il nostro debito pubblico.
Il curriculum vitae di Serpico  -  acronimo di Servizi per i contribuenti  -  è già più che onorevole: da cinque anni a questa parte ha dato un contributo sostanziale per raddoppiare da 5 a 11 miliardi le cifre recuperate dall'Erario e smascherare 350mila evasori totali. Ecco come funzionerà l'acchiappa-evasori della Laurentina quando da Capodanno avrà a disposizione il suo nuovo arsenale di dati.
Un tesoro in byte. Visto così, alla prima schermata, Serpico pare una creatura innocua. Qualche campo da riempire, sfondo turchese e due caselle chiave: codice fiscale o partita Iva. Basta digitare uno dei due valori però, e il Grande Fratello del fisco mostra subito i muscoli.
La seconda videata è solo l'antipasto. Nome e cognome del contribuente, più le sue ultime cinque dichiarazioni dei redditi. Un "invio" e si va oltre. Scavando in pochi millesimi di secondo tra tutte le banche dati collegate online con l'Einstein della Sogei (catasto, demanio, motorizzazione, Inps, Inail, dogane, registri) il pc alza il tiro: sul megaschermo appaiono le auto intestate, le case, i terreni, eventuali aerei e barche.
Un altro invio, la schermata vira in blu, e il servizio è completo. Serpico ha scovato tutte le nostre utenze (luce, gas, acqua) le spese voluttuarie più alte e significative, le polizze assicurative, le operazioni per cui ci è stato chiesto il codice fiscale, persino le iscrizioni in palestra o allo Yacht club Costa Smeralda.
La quinta schermata, il bazooka come lo chiamano in Sogei, è figlia del Salva Italia ed è in fase di preparazione. Fotografati i redditi dalla dichiarazione, censiti i principali beni immobiliari, l'occhio del cervellone fotograferà i soldi che teniamo in banca, i movimenti dei nostri conti correnti e le operazioni sopra i mille euro. Le banche e gli intermediari finanziari manderanno una nota periodica e lui elaborerà per segnalare le eventuali anomalie. Una rivoluzione visto che il controllo dei conti correnti era consentito fino ad oggi solo se sul singolo contribuente era già in corso un controllo.
Il faro sui sospetti.
Nessun essere umano, naturalmente, è in grado di gestire la valanga di dati che piove ogni giorno nel sotterraneo a due passi dalla Laurentina. Serpico macina quasi 31 milioni di dichiarazioni dei redditi, poco meno di 5 di comunicazioni Iva e quasi un centinaio di migliaia di pagamenti telematici all'anno.
L'Agenzia delle Entrate imposta gli algoritmi applicativi per concentrare la ricerca sulle categorie più a rischio. L'anno scorso è toccato alle finte Onlus e al redditometro, la spia che segnala la disponibilità di beni sproporzionati al reddito percepito.
Il lavoro sporco lo fanno i duemila server (che hanno un po' di gemelli in Abruzzo per salvare il data-base in caso di problemi): incrociano i dati, verificano le anomalie. E quando individuano il sospetto mandano in automatico un "alert" informatico alla direzione dell'agenzia delle entrate e alla sede provinciale del caso individuato. Con un "bip" del computer il super-ispettore ha già scovato 518 proprietari di aerei e 42mila titolari di barche più lunghe di 10 metri che dichiarano meno di 20mila euro. Tutti finiti ora sotto accertamento.
Il Salva-Italia, ovviamente, moltiplica la sua efficacia. Non tanto sul fronte del numero dei contribuenti passati ai raggi X, quanto rendendo più semplice isolare i casi a rischio evasione grazie alla fotografia in tempo reale dei loro conti correnti, delle loro spese e del loro patrimonio mobiliare.
La palla agli ispettori.
La verà novità della manovra, dicono in camera caritatis tutti i super-esperti di fisco, è proprio qui. Nessuno andrà a ficcare il naso nelle tasche dei contribuenti fedeli, ma gli algoritmi di analisi di rischio di Serpico selezioneranno un elenco di presunti colpevoli (si spera) a basso tasso d'errore. Le vecchie lettere del redditometro di qualche anno fa, per dire, avevano incastrato solo 12mila evasori su 75mila cartelle erariali inviate.
Le cose già ora sono migliorate (su 30mila accertamenti con il redditometro nel 2010 ben 12mila si sono conclusi con un patteggiamento dell'interessato). Gli "alert" informatici usciti dai sotterranei della Sogei, dopo l'era delle cartelle pazze, dovrebbero partorire quella delle cartelle intelligenti. E il lavoro dei 15mila ispettori delle Entrate e della Finanza  -  che nel 2010 ha scovato un evasore all'ora contro uno ogni 71 minuti del 2009  -  dovrebbe essere molto più semplice. mirato ed efficace.
Lo stesso discorso vale per Gerico, il software con cui autonomi e partite Iva calcolano la congruità dei loro redditi con gli studi di settore (la media per la loro categoria d'attività). Il timore che l'occhio lungo del fisco possa scoprire dai sotterranei della capitale i capitali evasi potrebbe convincere molti ad aumentare il tasso di fedeltà al fisco. Anche perché il Salva-Italia ha introdotto norme che premiano le dichiarazioni più realiste inasprendo le pene (indagini finanziarie più sanzioni penali) per chi dichiara il falso. E con sul collo il fiato di Serpico  -  così spera Monti e tutto il paese  -  non saranno in molti quelli che oseranno sfidare la sorte.
[fonte: REPUBBLICA.it]

Operazioni inesistenti, prova a carico del contribuente


È legittimo il recupero a tassazione dell’IVA irritualmente detratta, se il soggetto passivo non è in grado di dimostrare la fonte che giustifica l’esercizio del supposto diritto di cui all’art. 19 del DPR n. 633/1972. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 27198/2011 depositata ieri, accogliendo il ricorso dell’Agenzia delle Entrate avverso la decisione della giurisprudenza di merito, favorevole alla tesi del contribuente: in particolare, le Commissioni tributarie provinciale e regionale avevano ritenuto che gli avvisi di accertamento – riguardanti l’indeducibilità dei costi relativi ad operazioni inesistenti e l’indetraibilità della corrispondente imposta sul valore aggiunto – si basassero esclusivamente su dichiarazioni non riscontrate del vettore, e di dubbia fondatezza, pur in presenza del regolare pagamento dei beni.
Analogamente, i giudici di merito avevano ritenuto irrilevante la mancata registrazione delle fatture di vendita e trasporto a carico del cedente, in quanto non imputabile al contribuente-acquirente, che si era altresì reso disponibile a far verificare la propria contabilità di magazzino.
L’orientamento in parola non è stato, tuttavia, condiviso dalla sentenza n. 27198/2011 della Cassazione, secondo cui – qualora l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione dell’IVA, in virtù di fatture passive per operazioni inesistenti – la prova della legittimità e della correttezza del comportamento adottato dall’acquirente deve essere dallo stesso fornita, mediante l’esibizione di adeguati documenti contabili, preventivamente acquisiti e conservati dal medesimo. La Suprema Corte ha, pertanto, confermato quanto già sostenuto in passato: se il contribuente non è in grado di provare la legittimità della detrazione, non lo è neppure in relazione alla dimostrazione del fatto costitutivo della propria pretesa, legittimando dunque la ripresa a tassazione dell’imposta irritualmente detratta (Cass. n. 16896/2007 e 28695/2005). Sul punto, si rammenta che gli atti probatori in parola, prodotti dal contribuente (Cass. n. 1181/2001), non devono provenire da un soggetto inesistente, né riferirsi ad un soggetto in essi non indicato (Cass. n. 1727/2007).
La Cassazione ha, inoltre, ribadito che la predetta prova documentale non può essere costituita dalla sola esibizione dei mezzi di pagamento, che normalmente vengono utilizzati fittiziamente, costituendo un mero elemento indiziario, la cui presenza o mancanza deve essere valutata nel contesto di tutte le altre risultanze processuali (Cass. n. 11203/2007, 7144/2007 e 13662/2001). È infatti noto che gli utilizzatori di fatture emesse a copertura di operazioni inesistenti, al fine di dedurre il costo e detrarre la corrispondente IVA, “hanno cura di effettuare i relativi pagamenti con assegni bancari per lasciare traccia degli stessi a futura memoria. Nel contempo, però, si fanno restituire, in contanti, la stessa somma pagata, salvo i costi richiesti dall’emittente” (Cass. n. 15228/2001). In altri termini, se l’emissione della fattura non dimostra l’effettività dell’operazione sottostante, tale prova non può essere fornita con la produzione dei mezzi di pagamento utilizzati.
La giurisprudenza di legittimità in commento ha, poi, escluso che – in virtù del peculiare meccanismo dell’IVA – non possa rilevare, ai fini del conseguimento del diritto alla detrazione dell’IVA, l’assenza di registrazione delle fatture di vendita a cura del cedente: con l’effetto che deve risultare dimostrato un ulteriore requisito di detraibilità, che il contribuente è tenuto a comprovare (Cass. 11109/2003), rappresentato dall’inerenza all’impresa dell’operazione fatturata.
Conseguentemente, la sentenza n. 27198/2011 ha, infine, dedotto la violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. (“Presunzioni semplici”), con riferimento alla decisione della C.T. Reg., che aveva ritenuto illegittimi – commettendo error in iudicando, ovvero ponendo a carico dell’Amministrazione finanziaria l’onere probatorio giuridicamente gravante, invece, sul soggetto passivo – gli accertamenti impugnati per carenza di prova, omettendo di considerare tutti gli argomenti e i documenti della fase istruttoria: la dichiarazione del vettore di non aver effettuato il trasporto; la mancata fatturazione dell’operazione da parte del cedente; le modalità di pagamento dei beni, effettuato mediante monetizzazione degli assegni in conto pagamento, lo stesso giorno della loro emissione direttamente all’istituto emittente.