giovedì 17 gennaio 2013

Ecolabel



 L'Ecoetichetta, Ecolabel nella dicitura inglese, è un marchio europeo usato per certificare (secondo il regolamento CE n. 66/2010) il ridotto impatto ambientale dei prodotti o dei servizi offerti dalle aziende che ne hanno ottenuto l'utilizzo.
È rappresentato da una margherita stilizzata avente le dodici stelle della bandiera dell'Unione europea come petali e, al centro, una E arrotondata.
La certificazione necessaria può essere richiesta, su base volontaria, da qualunque impresa o azienda appartenente ai 27 Stati dell'Unione europea come pure in Norvegia, Islanda e Liechtenstein.
L'Ecoetichetta è uno strumento volontario comunitario che certifica i prodotti ambientalmente compatibili, consentendo al consumatore di riconoscere attraverso un marchio il rispetto del’ambiente da parte del prodotto (o servizio) in tutto il suo ciclo di vita, che può così diversificarsi dai concorrenti presenti sul mercato, mantenendo elevati standard prestazionali ambientali. L'Ecolabel non si applica a prodotti farmaceutici e alimentari (settore per il quale è in corso di studio un’estensione del marchio).
Il rispetto dell’ambiente deve essere certificato attraverso una serie di criteri definiti per ogni categoria di prodotto, valutati sulla base di un’analisi della vita dei prodotti, sui costi di smaltimento, sugli imballi e sui consumi, secondo procedure normate nella ISO 14040. Queste procedure prevedono la determinazione da parte del produttore del grado di approfondimento necessario per l’analisi, la garanzia della qualità dei dati e della corretta interpretazione dei risultati; inoltre deve essere effettuata un’analisi dell’inventario che, per ogni fase di vita del prodotto, cataloghi tutti i flussi di materia e energia inerenti al prodotto, in modo da definire un bilancio di materia e di energia. La stima dell’impatto deve considerare tutti i processi relativi al prodotto e deve essere fatta anche in termini di contributo al surriscaldamento, al problema dell’ozono, all’eutrofizzazione, all’acidificazione, alla tossicità per l’uomo e per l’ambiente.
Per l’assegnazione del marchio Ecolabel l’azienda deve inviare domanda e documentazione al comitato preposto, il quale si avvale dell’ISPRA (Istituito superiore per la Prevenzione e la Ricerca Ambientale) per la verifica tecnica e le prove di laboratorio. I costi per l’adesione sono fissati e comprendono una quota istruttoria più un canone annuale di partecipazione, proporzionale al volume di vendita. La domanda deve contenere tutti i documenti, i certificati e le schede tecniche utili a stabilire che il prodotto rispetta i criteri stabili. L’utilizzo del marchio deve sottostare a un contratto ed è permesso per il solo prodotto richiedente, infatti è rilasciato per il prodotto e non per l’azienda. Sono previste delle agevolazioni particolare per chi richiede l'Ecoetichetta per un prodotto di un’azienda già registrata EMAS.

Cosa fa un Venture Capital



Un Venture capital è una società che ha come primario scopo quello di finanziare giovani imprese, soprattutto impegnate nei campi tech e biotech, in modo da far aumentare il loro valore e guadagnare sulla vendita delle azioni in loro possesso.
In Italia, questo tipo di finanziamenti, sta avendo un ottimo riscontro e molti siti sono stati lanciati grazie a questi grandi afflussi di denaro liquido.
Detto ciò, vediamo come funziona l'operazione di un Venture capital. La società di investimento, acquista una percentuale di minoranza dell'impresa da finanziare: in genere dal 5% al 40%, coinvolgendo una cifra che va dai 100 milioni fino ai 10 miliardi. In questo modo, l'imprenditore, senza avere messo fondi propri, ha un'ottima possibilità di realizzare le proprie idee, restando socio di maggioranza e avendo quindi il potere decisionale.
In genere, l'unica richiesta del Venture capital, è quella di avere uno o più rappresentanti nel Consiglio di amministrazione, che siano però un elemento unicamente consultivo del Venture capital.
La società finanziatrice, dopo un periodo che va dall'uno ai cinque anni, esce dal capitale dell'impresa finanziata, vendendo le azioni in suo possesso diverse soluzioni: Opv (offerta pubblica di vendita, nel caso in cui l'impresa fosse approdata in Borsa), vendita all'imprenditore stesso oppure vendita ad altre aziende interessate all'acquisizione della quota di minoranza.

Cosa cambia per le startup con il Decreto Crescita



La cosa più evidente, e nella sua semplicità davvero rivoluzionaria, è che per la prima volta viene introdotta una definizione di startup che abbia un valore normativo, al di là delle elucubrazioni degli addetti ai lavori. In gran parte il governo ha accolto qui i suggerimenti del rapporto Restart Italia!, di cui avevamo già parlato (e sarebbe stato strano il contrario, dopo che il gruppo di lavoro aveva lavorato diversi mesi a diretto contatto con il ministro).   

Quindi (art. 25): per potersi fregiare dell'appellativo di startup - e accedere quindi ai relativi finanziamenti - bisogna che l'atto costitutivo della società risalga al massimo a due anni prima; l'azienda non deve aver distribuito utili e avere un fatturato non superiore ai cinque milioni di euro, avere sede in Italia e rispondere ad altri requisiti inseriti per evitare che possano essere fatti " giochini", (ad esempio, il non essere frutto di cessione o fusione).  

Spunta anche l'" incubatore certificato"; oltre a essere definito come " una società di capitali di diritto italiano, o di una Societas Europaea, residente in Italia", si dice che " i requisiti che gli incubatori devono possedere sono legati alla disponibilità di risorse materiali e professionali per svolgere tale attività". Tradotto significa in pratica che l'incubatore deve disporre di immobili dove accogliere le nuove aziende, attrezzature adeguate, competenze, legami di collaborazione e partnership con Università e centri di ricerca. Tali requisiti verranno prodotti per autocertificazione.  
Un'ottima cosa, nel segno della trasparenza, è la creazione di una sezione apposita del Registro delle Imprese in cui dovranno obbligatoriamente iscriversi startup e incubatori. I soldi. Sono anche più quanto si era prefigurato in un primo momento (si mormorava di 60 milioni di euro). Invece, si legge nel documento: "per le startup vengono messi subito a disposizione circa 200 milioni di euro, tra i fondi stanziati dal decreto sotto forma di incentivi e fondi per investimento messi a disposizione dal Fondo Italiano Investimenti della Cassa Depositi e Prestiti (vedi update*).   

Nelle prossime settimane, con un apposito decreto ministeriale, saranno stanziate ulteriori risorse per nuove imprese presenti nel Mezzogiorno". La norma, a regime, impegnerà 110 milioni di euro ogni anno per incentivare le imprese innovative. A ciò si aggiunge la previsone, contenuta nell'articolo 30, di un canale agevolato di accesso al credito per le startup, che " potranno usufruire gratis e in modo semplificato del Fondo centrale di garanzia per le piccole e medie imprese, anche mediante la previsione di condizioni di favore in termini di copertura e di importo massimo garantito".  

Parecchie novità anche sul fronte dello snellimento burocratico e dei costi necessari per avviare l'attività: come l’esonero, per i primi quattro anni, dai diritti di bollo e di segreteria per l’iscrizione al Registro delle Imprese, e quello dal pagamento del diritto annuale dovuto alle Camere di commercio.  
Il governo ha accolto inoltre la proposta, avanzata dalla task force e mutuata dal modello anglosassone, di associare (art.29) al rischio di impresa dipendenti e collaboratori, tramite l'assegnazione di quote o azioni della startup. In pratica le persone vengono motivate a investire sul futuro dell'azienda, sperando di condividere magari oltre ai tempi duri, anche l'eventuale successo.   

Cambia anche la procedura del fallimento, uno dei peggiori spauracchi per chi voglia avviare un'impresa: nel caso delle startup, visto l'elevato e fisiologico tasso di mortalità, nel caso l'avventura non porti frutti, non si prevede la perdita di capacità dell’imprenditore ma la "mera segregazione del patrimonio destinato alla soddisfazione dei creditori" (art. 31).   

Dulcis in fundo, il ministro dello Sviluppo economico dovrà presentare entro il primo marzo di ogni anno una relazione sullo stato di attuazione delle disposizioni in materia di startup innovative, mettendo in rilievo soprattutto l’impatto di tali norme sulla crescita e l’occupazione.  


*Update  
La parte relativa ai fondi messi a disposizione dalla Cassa Depositi e Prestiti non ha poi trovato attuazione nel decreto vero e proprio, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Una delle critiche mosse al provvedimento finale è stata proprio quella di non prevedere un'iniezione diretta di liquidità nel sistema.

Redditometro: la Cassazione in aiuto ai contribuenti

La recente pronuncia della Corte di cassazione (sentenza n. 23554/2012) che, in modo esplicito, ha affermato la natura di presunzione semplice del redditometro, potrebbe, nella maggior parte dei casi, alleviare gli oneri dei contribuenti nel fornire elementi idonei a dimostrare che si sono prodotti redditi inferiori rispetto a quanto contestato.
Infatti, in tutte le ipotesi in cui questo maggior reddito deriva dall'applicazione degli indici statistici dovrebbe conseguire, pena la censura in sede giudiziaria, che l'Ufficio anche dopo il contraddittorio, fornisca altri riscontri idonei a integrare il risultato dell'elaborazione statistica.
Va detto, per completezza, che sinora, la maggior parte della giurisprudenza di merito, e anche altre pronunce della Cassazione, hanno ritenuto spesso indiscutibile il risultato derivante dall'applicazione dei coefficienti redditometrici addossando interamente sul contribuente l'onere di provare il contrario. Circostanza, questa, particolarmente ardua, per non dire impossibile, proprio perché gli indici erano obiettivamente poco precisi (avere una casa in un piccolo paese di montagna in provincia di Sondrio o al centro di Milano era la stessa cosa): non potendoli sindacare, la difesa era pressoché menomata.
Per il futuro, anche in considerazione della pronuncia della Cassazione di cui si è detto, le preoccupazioni di molti contribuenti potranno essere fondate, o meno, a seconda del comportamento che sarà assunto in concreto dagli uffici. Se, infatti, gli uffici assumeranno atteggiamenti come per il passato, ritenendo il valore da dichiarare risultante dai calcoli del tutto indiscutibile se non con elementi di segno contrario a carico del contribuente, ma spesso neanche considerati, non sarà facile, in molti casi, evitare il contenzioso.
Se invece gli uffici, mutando il comportamento assunto in questi anni, utilizzeranno l'elasticità necessaria che ogni strumento statistico - che si vuole applicare in modo massivo - richiede, allora il nuovo redditometro potrà rivelarsi utile nel contrasto all'evasione; soprattutto, per poter intercettare posizioni fiscali oggettivamente singolari e a rischio, e meritevoli di successivi approfondimenti.
Va detto, però, che la circostanza che i giudici di legittimità abbiano affermato la natura di presunzione semplice e quindi l'onere di provare il maggior reddito in capo all'ufficio, non deve automaticamente far sperare in un mutamento di posizione dell'amministrazione.
Infatti, per gli studi di settore, che ormai presentano molti punti di analogia rispetto al nuovo redditometro, nonostante siano addirittura intervenute le sezioni unite della Cassazione, ancora oggi si assiste a contestazioni esclusivamente sulla base del valore emergente dal calcolo statistico.

Previdenza complementare. Resoconto 2012



Chi è diffidente di natura non si lascia convincere quasi da nulla. E probabilmente non saranno le buone performance dei fondi pensione nel 2012 a spingere 12 milioni di lavoratori ad aderire a un fondo pensione, preferendo questi alla rivalutazione del Tfr in azienda o allo Stato (tramite il Fondo Tesoreria dell'Inps). Anche se i costi della previdenza complementare italiana sono tra i più bassi d'Europa, anche se la vigilanza delimita efficacemente inefficienze e comportamenti scorretti, il diffidente sa sempre trovare buoni motivi per dir di no: magari il fatto di non poter recedere dalla decisione di aderire a un fondo pensione, oppure la crisi in corso che mette a rischio molti posti di lavoro. Ciò per dire che non è normale essere ottimisti quando tutto va bene e pessimisti quando tutto va male.
Il principio di realtà e i fatti – al di là delle opinioni - sono fondamentali. La crisi spinge gli italiani a mettere da parte denaro liquido: i depositi presso le banche a fine 2012 sono cresciuti di 63 miliardi, +5,4% in un anno. Risparmio prudenziale, in caso di necessità o imprevisti. Che questo accantonamento da epoca di guerra sia coerente con le esigenze del presente è tutto da dimostrare ed evidenzia la difficoltà degli italiani di passare dall'accantonamento alla pianificazione di medio e lungo periodo: quando cioè sarà troppo tardi per rimediare scelte che si contruiscono nei decenni.
Le stime sulle pensioni che incasseranno i lavoratori oggi attivi saranno inevitabilmente rivisti al ribasso, visto che l'attuale recessione ridurrà il moltiplicatore dei contributi: questi, infatti, si rivalutano in base alla media mobile del Pil nominale. Chi oggi fa progetti sulla propria pensione, dovrà rivedere al ribasso le sue stime. Un esempio? Prendiamo un autoferrotranviere di 40 anni: basta una variazione negativa dell'1% nella media del Pil e il tasso di sostituzione cala di oltre il 5%. La via crucis del varo della cosiddetta "busta arancione" la dice lunga sulla difficoltà politica di dare cattive notizie. Essere previdenti rappresenta un buon paracadute rispetto a questo rischio molto concreto; e per questo è opportuno pianificare per il proprio futuro pensionistico, magari proprio con un fondo pensione, ossia con lo strumento dedicato alla necessità. Agli italiani piace far da soli, puntando magari al mattone, che sta avviandosi a un trend negativo importante. Meglio uno strumento specifico: chi chiamerebbe un impianchino per riparare un tubo rotto?
Ultima considerazione: i rendimenti presi qui in esame sono time weighted, ossia misurati in un arco di tempo e non tengono conto dell'effetto delle performance sui portafogli accumulati (money weighted). Analizzati in questo modo sono efficienti i fondi pensione? Basta chiederlo ai metalmeccanici che hanno aderito a Cometa nel 2007, anno della riforma del Tfr, e che hanno vissuto i cinque anni più pesanti della recente storia finanziaria: chi ha scelto il fondo pensione ha versato (nel comparto Reddito, ad esempio) 12.935 euro che rivalutati valgono oggi 16.051; chi invece avesse optato per il Tfr in azienda (o allo Stato) oggi avrebbe 13.644 euro.

mercoledì 6 giugno 2012

IMU - QUANDO E COME SI PAGA

L'Imu è entrata in vigore dal 1 gennaio 2012 e ha sostituito sia l'Ici, sia l'Irpef sui redditi fondiari (sugli immobili non affittati). Ecco di seguito le scadenze per il pagamento e le modalità per saldare la nuova tassa.
Quando pagare
L'Imu sulla prima casa - quella considerata quale abitazione principale, che può essere una sola a nucleo familiare - si paga in tre rate, con scadenze il 16 giugno, 16 settembre e 16 dicembre.
Al momento dell'acconto, il 16 giugno, bisogna pagare un terzo (33 per cento) di quanto dovuto se si applicasse l'aliquota base del 4 per mille, tenuto conto delle detrazioni di 200 euro per la prima casa e di 50 euro a figlio, purché minore di 26 anni e residente con la famiglia, in numero massimo di 4 figli. Nel 2012 si può pagare fino al 18 giugno, perché il 16 capita di sabato.
La seconda rata, entro il 16 settembre, deve essere uguale all'acconto. Nel 2012 si può pagare fino al 17 settembre, perché il 16 capita di domenica.
La terza rata, entro il 16 dicembre, è a conguaglio e tiene conto dell'aliquota definitiva decisa dal Comune nel quale si trova l'immobile. Nel 2012 si può pagare fino al 17 dicembre, perché il 16 capita di domenica.
Per le seconde case, e tutti gli altri immobili diversi dall'abitazione principale, rimangono invece modalità analoghe all'Ici, cioè due sole rate:
il 50 per cento il 16  giugno, calcolato sull'aliquota base del 7,6 per mille;
il rimanente entro il 16 dicembre, calcolato tenuto conto dell'aliquota effettiva stabilita dal Comune.
Come per la vecchia Ici, l'Imu è dovuta in proporzione al periodo di possesso nel corso dell'anno, per cui andranno rapportati i mesi effettivi di possesso. Nel caso in cui il possesso si prolungasse per oltre 15 giorni in un mese, sarà necessario considerare l'intero mese.
Per le case acquistate nel corso del 2012, è anche necessario presentare la dichiarazione Imu, entro il 30 settembre.

mercoledì 7 marzo 2012

Incombe l'Ici sugli agricoli con effetto retroattivo


Gli effetti del decreto salva-Italia sul trattamento fiscale dei fabbricati rurali sono abbastanza chiari per quel che riguarda l'Imu, mentre suscitano molti interrogativi per quel che riguarda l'Ici.
Per l'Imu è evidente l'imponibilità dei fabbricati rurali, con aliquota ridotta per quelli che hanno i requisiti di abitazione principale e aliquota base per gli altri (salvi interventi agevolativi dei Comuni), mentre per gli immobili rurali strumentali vi è l'applicazione dell'apposita aliquota ridotta. L'individuazione di questi ultimi sarà possibile grazie al classamento in D/10 sia in seguito alla procedura innescata dal Dl 70/2011 che con i Docfa. In questo modo il legislatore ha accolto la tesi della Cassazione a sezioni unite n. 18565 del 2009: la ruralità dei fabbricati è comprovata dal loro classamento nelle apposite categorie catastali. Ha anche risolto il problema posto dall'agenzia del Territorio rispetto alla collocazione delle abitazioni nella categoria A/6. Resta il problema dei requisiti necessari per il riconoscimento della ruralità, ai fini dell'accatastamento, per i fabbricati a destinazione strumentale.
Molto più significativi potrebbero essere gli effetti del salva-Italia sull'Ici. L'introduzione della procedura di riconoscimento dei requisiti di ruralità da parte del Dl 70/2011 aveva spinto a ipotizzare una valenza retroattiva alla procedura stessa sulla base della richiesta del possesso dei requisiti di cui al comma 3 e 3-bis dell'articolo 9 del Dlgs 557/93 da almeno cinque anni. La tesi non era sostenibile in quanto la norma non prevede la validità retroattiva del nuovo classamento e una sua interpretazione estensiva sarebbe stata in contrasto con la costante giurisprudenza della Cassazione (n. 10646/2005 e n. 6627/2009) che ammette solo l'eventuale retroattività alla data di presentazione della denuncia (n. 12029/2009).
Il dubbio è tuttavia superato dal ripristino operato con il Dl 201/2011 con l'abrogazione della norma di interpretazione autentica che esclude l'imponibilità Ici dei fabbricati rurali. La Cassazione, in un'occasione molto simile relativa agli effetti determinati dall'abrogazione di una norma di interpretazione autentica (sentenza n. 13319/2006) ha affermato: «La natura interpretativa della norma di cui al citato comma... ne comporta la conseguente retroattività: la successiva norma abrogatrice non può che avere la medesima efficacia, retroagendo anch'essa al tempo della norma anteriore interpretata... in altri termini, l'intervenuta abrogazione ha reso la norma interpretativa, se così si può dire, una norma inutiliter data, restituendo inalterata la situazione alla precedente contrapposizione ermeneutica tra i diversi significati possibili attribuiti alla norma interpretata». Pertanto, l'abrogazione della norma di interpretazione autentica ripristina l'eventuale contrasto interpretativo preesistente.
Nel caso specifico, date le caratteristiche di fatto innovative della norma interpretativa, non ci sono dubbi circa la portata della norma (articolo 2, comma 1, lettera a) del Dlgs 504/92), che prevede l'imponibilità ai fini Ici di tutti i fabbricati iscritti o iscrivibili a catasto, compresi quindi anche i rurali. L'abrogazione ha valenza retroattiva, come chiarito dalla Cassazione, per cui appare del tutto irrilevante il fatto che la norma di abrogazione sia entrata in vigore il 1° gennaio 2012 e non il giorno della pubblicazione del decreto.
Sulla scorta di quanto sopra sembra quindi preferibile la tesi del ripristino dell'imponibilità dei fabbricati rurali ai fini Ici con valenza retroattiva

Verifiche fiscali, libero accesso presso locali utilizzati da ENC e Onlus


I militari e gli impiegati civili dell’Amministrazione finanziaria possono accedere, previa semplice autorizzazione del comandante o del capo ufficio, presso i locali utilizzati dagli enti non commerciali e dalle organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS). A prevederlo è il Decreto “semplificazioni fiscali” (DL 16/2012), pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 2 marzo scorso.
Come noto, la disciplina del potere di accesso presso i locali dei contribuenti è recata, ai fini IVA, dall’articolo 52 del DPR 633/1972, a cui peraltro rimanda l’articolo 33 del DPR 600/1973, per quanto concerne le imposte dirette. L’art. 52 citato individua sostanzialmente tre distinte categorie di locali di accesso, che risultano graduate in funzione della tutela offerta dall’ordinamento al soggetto sottoposto a controllo: nei locali destinati soltanto all’esercizio di attività commerciali, agricole, artistiche o professionali, i verificatori possono accedere previa semplice autorizzazione del capo ufficio o comandante del corpo da cui dipendono; qualora i predetti locali siano, però, contestualmente adibiti anche ad abitazione (“ad uso promiscuo”), l’accesso richiede, oltre alla summenzionata autorizzazione “interna”, anche quella del Procuratore della Repubblica, che tuttavia si configura nella sostanza come un “atto dovuto”; infine, vi è la categoria “residuale” di accesso presso i “locali diversi da quelli indicati” in precedenza (abitazione, in primis), per cui è previsto che il potere in oggetto possa essere esercitato soltanto in presenza dell’autorizzazione “interna” e di quella del Procuratore della Repubblica, che però, in tale ipotesi, può essere rilasciata “soltanto in caso di gravi indizi di violazioni” delle norme tributarie.
L’accesso presso i locali degli enti non commerciali e delle Onlus, prima del Decreto sulle semplificazioni fiscali, era equiparato, come precisato nella relazione illustrativa, a quello presso il domicilio privato di un contribuente e, quindi, s’inseriva nella categoria residuale sopra illustrata. Pertanto, l’accesso presso tali enti, sotto il profilo della prassi operativa, era molto difficoltoso, atteso che richiedeva a priori che l’Amministrazione finanziaria individuasse i gravi indizi di violazione delle norme tributarie per ottenere l’autorizzazione all’accesso dal PM.
Con l’articolo 8, comma 22, del DL 16/2012, il Legislatore ha modificato il citato articolo 52 del DPR 633/1972, inserendo tra i locali appartenenti alla categoria per cui è necessaria la sola autorizzazione “interna” del capo ufficio o del comandante, ossia quelli destinati ad attività commerciali, agricole, artistiche o professionali, anche “quelli utilizzati dagli enti non commerciali e da quelli che godono dei benefici” di cui al DLgs. 460/1997 (si tratta delle agevolazioni previste dall’articolo 111-ter del TUIR, relative all’esenzione da imposte sul reddito, nonché dall’articolo 10 del DPR 633/1972, per talune esenzioni IVA).
Nella relazione illustrativa al DL 16/2012 è stato osservato che tale intervento si è reso necessario perché la particolare veste giuridica degli enti non commerciali e delle Onlus è stata “spesso indebitamente utilizzata” da soggetti che hanno mascherato vere e proprie attività commerciali, al fine di fruire delle agevolazioni fiscali previste dallo specifico regime di tali enti.

Tirocinio professionale a 18 mesi


Sulla riduzione del tirocinio professionale ad un massimo di 18 mesi, sancita dal Decreto liberalizzazioni (DL n. 1/2012), permangono forti perplessità. Lo dimostrano le richieste di chiarimenti inoltrate al CNDCEC dagli Ordini locali, poi confluite in una lettera che lo stesso Consiglio nazionale ha inviato ai Ministeri competenti – Giustizia e Università – lo scorso 28 febbraio 2012.
L’art. 9, comma 5 del Decreto liberalizzazioni stabilisce espressamente che la durata del tirocinio valido per l’accesso alle professioni regolamentate non possa essere “superiore a 18 mesi”, con la possibilità di svolgere i primi sei mesi, previa convenzione quadro tra MIUR e vertici di categoria, “in concomitanza col corso di studio” finalizzato al conseguimento di una laurea breve o della laurea magistrale/specialistica. Inoltre, è possibile siglare una convenzione con il Ministero della P.A. per svolgere il tirocinio nel pubblico. Il Decreto liberalizzazioni ha soppresso, infine, alcune disposizioni del DL n. 138/2011, tra cui l’obbligo di corrispondere al tirocinante “un equo compenso di natura indennitaria”.
Mentre, per quanto riguarda il tirocinio degli avvocati, la riduzione risulta di “soli” sei mesi (a fronte di una durata di due anni), ben maggiori sono le ricadute per i commercialisti, il cui praticantato viene così addirittura dimezzato. Senza dimenticare che l’intervento normativo rende obsoleta la convenzione quadro MIUR-CNDCEC stipulata nel novembre 2010, in base alla quale – dei tre anni complessivi di tirocinio – i primi due possono essere svolti contestualmente al corso di laurea specialistica/magistrale, e il terzo sotto la guida di un dominus.
Come si evince dall’Informativa n. 20/2012 del Consiglio nazionale, i dubbi principali riguardano la mancata previsione di una fase transitoria. Il termine ultimo per l’applicazione delle novità sulle professioni è fissato dal DL n. 138/2011 (conv. dalla L. n. 148/2011) alla data del prossimo 13 agosto 2012, ossia ad un anno esatto dall’entrata in vigore dello stesso DL. Ci si chiede, in ogni caso, se la riduzione del tirocinio di cui al DL n. 1/2012 – intervenuto in seguito appoggiandosi proprio al DL n. 138/2011 – sia da considerarsi immediatamente applicabile o meno.
A favore della tesi dell’applicabilità non immediata pende essenzialmente il fatto che il DL 138/2011 demanda a un DPR – da emanare entro e non oltre il 13 agosto 2012 – la riforma degli Ordini professionali, in sostanza mantenendo in vigore le regole attuali fino ad allora. D’altra parte, evidenzia il CNDCEC nella lettera ai Ministeri, il decreto legge non è uno strumento atto a dettare semplici norme di principio, perciò si potrebbe desumere che la norma del DL n. 1/2012 sia immediatamente percettiva.
Un’eventualità, quest’ultima, che secondo il Consiglio nazionale potrebbe comportare conseguenze “problematiche”. All’atto pratico, la prima delle questioni aperte concerne il caso dei tirocinanti che, alla data di entrata in vigore del DL n. 1/2012, avessero già compiuto 18 mesi di praticantato. Ciò tenendo conto, soprattutto, della Convenzione quadro MIUR-CNDCEC, che attualmente consente di poter svolgere i primi due anni durante l’ultimo biennio di università. Due le possibilità: la prima è che valga la normativa vigente al momento dell’iscrizione del Registro del tirocinio, e che quindi sia comunque obbligatorio completare i tre anni; la seconda, invece, stabilisce che il tirocinio possa concludersi in 18 mesi, svolti in concomitanza del corso universitario specialistico, senza perciò nemmeno aver ottenuto la laurea di secondo livello.
Restando ai problemi del “periodo transitorio”, rimane poi da capire come muoversi nei confronti dei tirocinanti che si siano iscritti nell’apposito Registro dopo il 24 gennaio 2012, data di entrata in vigore del DL n. 1/2012. Il Consiglio nazionale ipotizza che non possano più svolgere il praticantato ex Convenzione quadro MIUR-CNDCEC e che sia necessario siglarne quanto prima una nuova che tenga conto delle novità.
Evidente il vuoto normativo: non resta che sperare in una rapida risposta ministeriale.

lunedì 27 febbraio 2012

IMU SUGLI IMMOBILI COMMERCIALI DELLA CHIESA NEL DECRETO LIBERALIZZAZIONI


Nessun passo indietro: le attese novità per l’esenzione ICI/IMU sugli immobili degli enti non commerciali, non ultima la Chiesa, arriveranno. Non nel DL semplificazioni fiscali, ma attraverso un emendamento al DL n. 1/2012 (DL liberalizzazioni), attualmente in fase di conversione.
L’annuncio ufficiale è arrivato ieri, in Consiglio dei Ministri, per bocca del Premier Mario Monti: l’emendamento è già stato presentato al Senato e “intende garantire la massima tempestività nell’attuazione degli auspici della Commissione europea”; in tempo, quindi, per permettere alla Commissione Ue di chiudere – è l’auspicio di Monti – la procedura aperta nell’ottobre 2010 per verificare se l’esenzione ICI possa rappresentare una violazione delle norme comunitarie.
L’assenza delle modifiche nella bozza di Decreto sulle semplificazioni fiscali aveva fatto supporre che il Governo, nonostante le rassicurazioni di Monti dei giorni scorsi deciso di soprassedere, almeno per il momento. In realtà, l’Esecutivo ha soltanto preferito intervenire nella conversione di un altro Decreto già emanato, il DL n. 1/2012, alla luce della “stretta attinenza ai temi della concorrenza, della competitività e della conformità al diritto comunitario”.
I principi a cui si dovranno ispirare le modifiche (o meglio, le precisazioni normative) sono gli stessi anticipati lo scorso 15 febbraio al Vicepresidente della Commissione Ue, Joaquin Almunia.
In sostanza, saranno esenti dall’ICI (che confluirà nell’IMU a partire da quest’anno) soltanto gli immobili in cui si svolge un’attività non commerciale in maniera esclusiva. Non saranno dunque esenti quelli in cui l’attività non commerciale sia solo prevalente. Nel caso di immobili a destinazione mista (commerciale e non), sarà espressamente esente da ICI/IMU la sola frazione di unità immobiliare dedicata all’attività non commerciale.
Al fine di stabilire il citato frazionamento, verrà introdotto un meccanismo di dichiarazione vincolata a parametri stabiliti dal Ministero dell’Economia, che dovranno individuare il rapporto proporzionale tra attività commerciali e non commerciali coesistenti nel medesimo immobile.
Stando al comunicato diffuso ieri dal Governo, non sarà peraltro possibile alcuna sanatoria, né diretta né indiretta, per gli accertamenti già in essere e per le relative sanzioni.
Quanto agli effetti sul gettito, l’Esecutivo assicura che saranno “positivi”, ma non avanza ipotesi quantitative sulle maggiori entrate, che “saranno accertate a consuntivo e potranno essere destinate, per la quota di spettanza statale, all’alleggerimento della pressione fiscale”. Secondo alcune stime, comunque, si tratterebbe di una rivoluzione da oltre mezzo miliardo di euro.
E in risposta ai timori che la stretta normativa possa mettere in ginocchio il terzo settore, il Governo sottolinea che le attività non commerciali esercitate dagli enti saranno debitamente “riconosciute e salvaguardate”, tenendo conto della particolare importanza del volontariato per il tessuto sociale nell’attuale crisi economica.
Parole non sufficienti, però, a spegnere le proteste sul nascere. Contrari all’applicazione dell’IMU alle scuole paritarie i Salesiani d’Italia, secondo cui la norma “non sarebbe né giusta, né equa”. Secondo l’ordine (che gestisce 140 scuole in tutto il Paese), le attività con rilievo pubblico, destinate “all’assolvimento del diritto-dovere all’istruzione e formazione”, non possono essere considerate commerciali.